Chi erano i senza fissa dimora nella legge
anagrafica e nel regolamento di attuazione?
Gli ufficiali di anagrafe, per diverse generazioni, hanno appreso che quando a richiedere l’iscrizione
anagrafica sia una persona senza fissa dimora un problema di accertamento della effettività
della residenza non si pone, dato che per la legge ed il regolamento anagrafici (art.2, co.3,
L. 24.12.1954, n.1228; art.1, co.1 D.P.R. 30.5.1989, n.223) tale soggetto era (ed è)
comunque da considerarsi residente nel comune dove ha stabilito il domicilio o, in mancanza
(quindi come criterio meramente residuale), nel comune di nascita.
Ma cosa vuol dire “senza
fissa dimora”?
“Senza fissa dimora”, nel linguaggio tecnicizzato del legislatore
anagrafico (che conferisce al termine un’accezione diversa da quella attribuitagli da altre
scienze sociali1), è colui che, non fermandosi mai a
lungo in uno stesso luogo e non avendo dunque un progetto di residenzialità in alcuno dei
comuni italiani, né in una località straniera (almeno per i cittadini italiani che si
trovino all’estero), non possiede i requisiti per essere considerato, in senso stretto,
residente in alcun luogo e necessita dunque di un trattamento giuridico differenziato che
consiste, appunto, nel fare coincidere la residenza anagrafica con il domicilio. Le legge
anagrafica, come s’è appena visto, non si è però soffermata sulla definizione di
domicilio, né si è posta il problema di differenziare questa da quella di residenza;
differenza di cui cercherò invece di dare conto nelle successive considerazioni. D’altra
parte – è bene talvolta ricordarlo – il legislatore anagrafico non usa concetti di sua
esclusiva creazione, ma nozioni che derivano dal diritto civile, nel cui linguaggio è
custodito il vocabolario comune a tutti gli operatori giuridici che si occupino della persona
e delle sue relazioni sociali. Anche il civilista ha però trovato non poche difficoltà nel
tracciare una esatta linea di distinzione tra i concetti di domicilio (tra cui campeggia, in
primo luogo, quello di“domicilio
generale”2) e di residenza, che peraltro nel
processo di codificazione delle leggi civili non erano sempre ben
distinti3. Tuttavia, già nel vecchio
codice civile italiano del 1865 la differenza tra le due nozioni prese corpo a partire dalla
considerazione che talvolta la persona possa avere la sede dei suoi affari (il domicilio) in
un luogo diverso dalla sede dei suoi affetti (la residenza). A scorrere le numerose norme che
in qualche modo utilizzano, differenziandole, queste due definizioni, entrambi contenute
nell’art.43 cod. civ., emerge (in perfetta continuità con il vecchio codice del 1865) come
il domicilio costituisca il luogo di imputazione di posizioni giuridiche soggettive
prevalentemente patrimoniali del soggetto. Il riferimento agli affari della persona, già
esplicitato dalla norma strumentale (l’art.43, co.1 cod.civ.) viene infatti specificato da
una molteplicità di norme finali che riferiscono al domicilio il luogo di pagamento di certe
obbligazioni, l’apertura della successione ereditaria, etc. La residenza sembra invece
coincidere con il luogo dell’esistenza tout court, il luogo degli affetti familiari, dei
bisogni elementari ed esistenziali del soggetto4. Si tratta di una differenziazione
- problematica nei suoi confini, ma ben percepibile dall’esperienza comune – che non pare
contraddetta, bensì avvalorata, dalla stessa Relazione del Guardasigilli, il quale, al n.65,
semplicemente rilevava: “non è raro che una persona abbia in un luogo la dimora abituale (residenza) e in un altro luogo la sede
principale degli affari (domicilio)” Questo vuol dire che quanto più la somma degli “affari” risulti esigua,
fino alla piena coincidenza con le preoccupazioni
della mera sussistenza, tanto più il domicilio stesso assumerà i connotati esistenziali e
solo marginalmente patrimoniali che in coloro che hanno ben distinte una sfera esistenziale ed
una patrimoniale (aziendale, affaristica, da libero professionista, etc.) coinciderebbero
invece con i tratti tipologici della residenza. Come applicare, dunque, le due nozioni di
residenza e di domicilio a persone che sono senza una dimora fissa, cioè che non collegano
stabilmente ad un luogo né il proprio patrimonio affettivo-esistenziale né quello
reddituale o patrimoniale? Proprio di queste persone – girovaghi, artigiani itineranti,
circensi, marinai e camminanti di ogni genere dovette occuparsi, per i suoi specifici
compiti funzionali, la legge anagrafica all’art.2, co.3, successivamente dettagliato dal
regolamento anagrafico e dalle direttive dell’ISTAT (autorità nazionale di controllo delle
anagrafi assieme ed oltre al Ministero dell’interno). Fu infatti l’ISTAT, nelle sue note
illustrative della legge anagrafica e del regolamento, a suggerire l’istituzione in ogni
Comune di una sessione speciale "non territoriale" nella quale fossero elencati e censiti
come residenti tutti i senza tetto e i senza fissa dimora che desiderassero eleggere
domicilio al fine di ottenere la residenza anagrafica, individuando allo scopo una via
territorialmente non esistente. Fu dunque detto all’ufficiale di anagrafe di non fare
indagini sull’abitualità del domicilio del senza fissa dimora, perché questo era
sostanzialmente oggetto di una libera elezione da parte sua. Ed in tal senso si espresse lo
stesso Ministero dell’interno. Significativa, al riguardo, la Circolare n.1 del 1997, di
cui riporto solo questo breve passaggio: "Per alcune
particolari categorie di persone nei cui confronti non è riscontrabile il requisito della
dimora abituale, la legge anagrafica n.1228 del 24 dicembre 1954 ha preso in considerazione
un solo comune, e cioè quello eletto a domicilio dall’interessato”
Eleggere il domicilio ai fini
anagrafici è stata dunque, sin qui, una scelta incondizionatamente libera ed esclusiva del
richiedente l’iscrizione anagrafica come senza fissa dimora; a condizione, ovviamente, che
davvero si trattasse di una persona senza alcuna dimora stabile5.
La domanda che ora ci poniamo – non
irrilevante per comprendere correttamente le più recenti novità legislative – è se sia
stata corretta l’interpretazione data negli anni passati dall’Amministrazione (sia
l’ISTAT che il Ministero dell’interno) dell’art.2, co.3 della legge anagrafica (che anche a seguito della
recente novella rimane immutato), nell’intendere il riferimento al domicilio come una
libera elezione del richiedente, pur trattandosi, indubbiamente, di una figura normativa di
domicilio non automaticamente coincidente con quella di un semplice domicilio elettivo
dedicato alla cura di un singolo affare. A questa domanda, nonostante una prima e
superficiale apparenza in senso contrario, darei una risposta affermativa, sebbene talvolta
sia forse mancata una adeguata attenzione ai possibili – ed in effetti verificatisi –
abusi da parte di richiedenti interessati ad ottenere, attraverso una dichiarazione meramente
elettiva, vantaggi patrimoniali non sempre leciti. Per convincersi di questo occorre,
banalmente, immedesimarsi nella figura per la quale la norma è stata pensata: il senza fissa
dimora (vero). Colui che, non avendo un luogo privilegiato di vita e di affari, era comunque
costretto a sceglierne uno, anche a costo di valorizzare il più tenue legame con una
località talvolta visitata. La sua scelta, sino ad oggi, sarebbe potuta cadere sul comune
del luogo di nascita (ed allora l’elezione del domicilio anagrafico sarebbe coincisa con il
criterio di attribuzione legale, meramente suppletivo). Oppure la scelta sarebbe caduta sul
comune dove le navi sulle quali il richiedente viaggiava facevano più spesso scalo; o sul
comune dove viveva un cugino od un amico più caro di altri; od in quello dove, nel
precedente stile di vita, il richiedente aveva avuto, in effetti, un più solido attaccamento
sociale e forse addirittura la residenza. Ci poniamo ora un problema: se uno zingaro
italiano, in perpetuo movimento (figura a dire il vero sempre più rara) e dunque con
un’occupazione lavorativa itinerante, avesse ricevuto in eredità un appartamento nel
centro di Viareggio, recandovisi per brevi ma frequenti periodi dell’anno a riposarvi,
avrebbe mantenuto la possibilità di eleggere domicilio ai fini anagrafici in un qualsiasi
altro comune a suo piacimento, o sarebbe stato obbligato ad iscriversi, pur sempre come senza
fissa dimora, nel comune di Viareggio? A mio parere la risposta – alle condizioni di legge
vigenti prima delle modifiche introdotte con la legge 17.7.2009, n. 94 – sarebbe stata nel
senso dell’illegittimità dell’iscrizione anagrafica in un comune diverso da quello di
Viareggio, nel quale, obiettivamente, fosse venuto a crearsi l’obiettivo centro degli
interessi patrimoniali del soggetto, anche se non la residenza. L’esemplificato problema
serve a osservare che, anche prima della legge n.94/2009, il domicilio del senza fissa dimora
era da intendersi elettivo solo a condizione che si trattasse di persone prive di un loro domicilio
generale (o prevalente), il quale non può che essere unico. D’altra parte, la mancanza di
un domicilio generale – come già rilevato nelle precedenti considerazioni – è
condizione normale nel senza fissa dimora nullatenente, mentre è invece piuttosto rara in
tutti gli altri casi.
I “senza tetto” non sono (o non erano?) i “senza fissa dimora”.
Quando la legge anagrafica fu
approvata la figura del “senza fissa dimora” era forse più diffusa di oggi. Il sistema
economico italiano, senza dubbio più rurale e meno urbanizzato, consentiva ancora stili di
vita come quello del sellaio o del ferratore di cavalli, mentre i circhi e le giostre
venivano accolti con più entusiasmo e maggiore frequenza nei paesi dello Stivale. Ma già
allora, distinta dai “senza fissa dimora”, esisteva una massa di residenti privi di
un’abitazione consona al civile abitare, la cui condizione anagrafica era però assimilata
a quella di tutti gli altri residenti. La sola Capitale, ancora all’inizio degli anni
‘70, contava ad esempio tra i 100 ed i 150 mila baraccati. Si trattava di cittadini romani
giunti da altre regioni d’Italia ed iscritti solitamente all’anagrafe nei quartieri dove
abitavano, spesso definiti come “borghetti”, “baraccopoli” o semplicemente
“campi”.
Successivamente, con le politiche di
edilizia popolare ora in forte declino, le baraccopoli sono scomparse e i loro antichi
abitanti si sono sistemati nelle case. L’arredo urbano si è però ripopolato di nuovi
abitanti dei marciapiedi e delle baracche, più marginali dei precedenti, italiani o
stranieri che siano. Per questi ultimi, l’assimilazione ai fini anagrafici del “senza
tetto” all’abitante “normale” ha funzionato meno che in passato, sia per le diverse
caratteristiche soggettive di questi cittadini (che in alcuni casi rendono problematico o
impossibile l’accertamento anagrafico), sia per il mutare delle stesse prassi anagrafiche,
specie nei grandi centri urbani. È così accaduto, anno dopo anno, che i “senza tetto”
siano scomparsi dal regime anagrafico ordinario, per riaffiorare poi in quello del tutto
speciale (e per una parte di essi improprio) “dei senza fissa dimora”, dando luogo ad una
più generalizzata identificazione semantica tra i due termini.
Vero è che, come s’è poc’anzi
accennato, talvolta i “senza tetto” pongono problemi anagrafici simili a quelli
presentati dai “senza fissa dimora”. Ci si riferisce, in particolare, ai casi in cui la
persona “senza tetto” si sposta di strada in strada, senza un luogo fisso che funga da ricovero, pur
gravitando nell’ambito territoriale del comune per la maggior parte dell’anno.
Ma permane pur sempre una differenza
tra chi, privo di dimora stabile, risieda stabilmente sul territorio comunale e chi, invece,
privo di dimora stabile, è anche assente, per la maggior parte del tempo, dal territorio del
comune.
Una differenza ben colta dall’ISTAT
nelle ancora fondamentali note illustrative del 1992, dove è ravvisata la necessità di
istituire nell’anagrafe comunale una via territorialmente non esistente, ma conosciuta con
un nome convenzionale, nella quale iscrivere “con numero
progressivo dispari sia i “senza tetto” risultanti residenti al censimento, sia i
“senza fissa dimora” che eleggono domicilio nel Comune ma che, in realtà non hanno un
vero e proprio recapito nel Comune stesso”6.
Fu subito evidente il buon fine pratico
di tali indicazioni: quello di assicurare anche ai “senza tetto” sfuggiti alla
registrazione anagrafica ordinaria, ma emersi attraverso il periodico censimento della
popolazione, di trovare subito collocazione nei registri della popolazione residente.
Peraltro, nella consapevolezza della possibilità che la soluzione indicata non fosse
sufficiente a ricomprendere ogni effettiva residenza non ancora registrata o registrabile, le note ISTAT
continuano disponendo che, anche “al di fuori dei casi sopraddetti, potrà essere utilizzata la stessa via con numeri progressivi
pari”.
Cosa cambia con la legge 15 luglio 2009, n.94 ?
Ministero dell'Interno - Decreto 6 luglio 2010
Modalità di funzionamento del registro delle persone senza fissa dimora, a norma dell'articolo 2,
della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, come modificato dall'articolo 3, comma 39, della legge 15
luglio 2009, n. 94 (cd. "pacchetto sicurezza")
Decreto ed allegato in formato PDF
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L’art. 3 comma 38, della legge n.
94/2009 ha modificato l’art.2 comma 3 della
legge anagrafica, il quale, nel suo nuovo testo,
dispone ora che “ai fini
dell’obbligo di cui al primo comma, la persona che non ha fissa dimora si considera
residente nel comune dove ha stabilito il proprio domicilio. La persona stessa, al momento
della richiesta di iscrizione, è tenuta a fornire all’ufficio di anagrafe gli elementi
necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del
domicilio. In mancanza del domicilio si considera residente nel comune di
nascita". Si
compie quindi un ulteriore passo verso il definitivo superamento della originaria definizione
normativa di “senza fissa dimora”, il quale d’ora in poi dovrebbe dare la “quasi
dimostrazione” dell’effettività del domicilio od altrimenti rassegnarsi a risultare
iscritto all’anagrafe del comune di nascita.7
La novella pare, a primo acchito,
abbastanza ragionevole. Al senza fissa dimora ed al senza tetto non viene infatti richiesto
di avere una dimora stabile, bensì un domicilio, cioè di avere un legame sociale, una
frequentazione, per così dire, col comune di iscrizione, la quale, al limite, potrebbe
semplicemente coincidere con l’arredo urbano sul quale egli talvolta cammina. Purtroppo
però, la scarsa dimestichezza con la definizione normativa di domicilio fa sì che, almeno
in questo primo periodo di applicazione, in alcuni comuni si pretenda erroneamente e
parossisticamente che il “senza fissa dimora” indichi indirizzo, scala ed interno
dell’abitazione dove ha il suo domicilio. Anche al di là di interpretazioni così
palesemente erronee, il nuovo testo dell’art.2, co.3, non è però privo di qualche
ambiguità, là dove è richiesto ai diretti interessati di fornire all’ufficio di anagrafe
gli “elementi necessari
allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del
domicilio”.
Al
riguardo può essere utile ricapitolare alcune indicazioni metodologiche pur solitamente ben
conosciute dagli ufficiali di anagrafe, i quali in primo luogo terranno presente che
l’accertamento del domicilio è cosa ben diversa dall’accertamento della residenza, cioè
della dimora abituale; e non presuppone, a differenza di quest’ultima, la presenza fisica
della persona, con carattere di prevalenza, all’indirizzo indicato.
Infatti la nozione di
domicilio (sede principale dei propri affari ed interessi) è un concetto sufficientemente
elastico da potere ricomprendere una varietà di situazioni personali, patrimoniali,
esistenziali, relazionali, etc. Provo a chiarirmi meglio con alcune esemplificazioni:
trovandosi di fronte una signora il cui aspetto indichi con buone probabilità la condizione
di homeless, l’ufficiale di anagrafe cercherà di capire quali sono i suoi luoghi di
passaggio e chi la conosca. Gli verranno indicati, probabilmente, stazioni ferroviarie,
parchi pubblici, ponti, od anche un percorso itinerante tra abitazioni fatiscenti e campeggi.
L’ufficiale di anagrafe potrebbe inoltre scoprire che il luogo definibile ai sensi
dell’art.2 della legge anagrafica come il domicilio stabilito dalla homeless sia
identificabile in quel bar dove alla donna viene solitamente offerto un cappuccino caldo la
mattina, o il portico dentro il quale si rifugia per passarvi la notte. Un problema, a questo
riguardo, potrebbe essere costituito dal fatto che talvolta si tratta, come nelle
esemplificazioni ora proposte, di luoghi che coinvolgono la sfera giuridica di altri
soggetti. Il titolare del bar o gli abitanti del palazzo sotto il quale il portico si
trova dovranno acconsentire o no alla
indicazione di quel luogo come domicilio della signora “senza fissa dimora”?
Non mi pare
che ciò sia necessario e d’altra parte forse non sarebbe nemmeno possibile, almeno agli
effetti giuridici che ci interessano.
Nulla però impedisce che, una volta individuato il
luogo (o talvolta i luoghi) che sintetizza e svela il concreto vivere della richiedente sul
territorio del comune, quest’ultima possa poi essere collocata, come residente “senza
fissa dimora”, nella via virtuale a suo tempo indicata dall’ISTAT, la cui istituzione od
il cui mantenimento nell’anagrafe comunale – malgrado la diversa opinione di altri,
autorevolissimi, commentatori - non mi pare affatto impedita dalla
nuova formulazione dell’art.2 della legge anagrafica dato che la novella si limita a
chiedere elementi circa l’effettività del domicilio nel comune e non pretende, invece, che
l’indirizzo di domicilio sia anche indirizzo di residenza.
Vero è che – se esiste il
consenso di tutti e due i soggetti interessati - potrebbe risultare più pratico per
l’amministrazione comunale (e ben più vantaggioso per la stessa homeless protagonista di
queste pagine) consentirne la domiciliazione, anche agli effetti della registrazione
anagrafica, all’indirizzo di un’associazione che eventualmente di lei si occupi e
l’assista per determinati bisogni (la somministrazione di pasti, il fermo posta, il
servizio docce, etc etc.), fungendo da domicilio meramente anagrafico. All’indirizzo
dell’associazione la signora che abbiamo preso ad esempio sarebbe infatti assai più
reperibile che non in “via della casa comunale 3”.
Resta però il problema di quei
“senza dimora” che hanno legami territoriali con singole persone o comunque con soggetti
non disposti o non attrezzati per offrire una domiciliazione che includa anche piccole scelte
di una qualche responsabilità (ad esempio: accettare o rifiutare posta e raccomandate
inviate al domiciliato presso il domiciliante?). Diversa è l’ipotesi, senz’altro
fattibile, di trasferire la domiciliazione anagrafica dei “senza fissa dimora” dalla via
virtuale comunale alla sede del servizio sociale, in quanto chi è assistito da tale ufficio
mostra indubbiamente di avere un fascio di interessi e di affari connessi alla propria
sopravvivenza presso quell’indirizzo istituzionale, ma allora tutto si ridurrebbe a cambiare un indirizzo
istituzionale (ad esempio la casa comunale) con un altro in base ad un ragionamento logico
condivisibile ma contraddittorio rispetto ad istruzioni amministrative, ed in particolare
quelle dell’Istat, non ancora revocate.
V’è poi il rischio – ben conosciuto dagli
operatori amministrativi – della confusione funzionale: il servizio sociale comunale,
infatti, si occupa di assistere i cittadini e non di riconoscere loro la residenza
anagrafica, ma una volta che sarà divenuto l’indirizzo di domicilio istituzionale dei
senza fissa dimora la tentazione per detto servizio di farsi illegittimamente decisore
dell’iscrizione anagrafica o del suo mantenimento diverrà più facile e frequente.
Del
tutto diverso in fatto (ma non certo in diritto) rispetto alla vicenda anagrafica sin qui
ipotizzata è il caso in cui l’ufficiale di anagrafe si trovi di fronte una distinta
signora, la quale non rechi nel suo aspetto i segni di una condizione di vita particolarmente
fragile. Anche in questo caso l’ufficiale di anagrafe dovrà verificare se non vi sia un
comune di provenienza nel quale, nonostante quanto dichiarato dalla richiedente, questa sia
ancora effettivamente residente, nonché verificare quale sia il luogo del suo principale
domicilio; e ricevere quindi una convincente spiegazione a riguardo dell’insolita mancanza
di una dimora abituale di civile abitazione.
Sarà parte dell’istruttoria compiuta
dall’ufficiale di anagrafe il verificare l’eventuale attualità della residenza in altro
comune (per lo meno informandosi presso le anagrafi dei comuni di precedente iscrizione
anagrafica), il chiedere conto del possesso o della disponibilità di civili abitazioni in
altri comuni ed il rammentare alla richiedente le responsabilità giuridiche connesse a false
dichiarazioni.
Ma non è detto che il senza fissa dimora debba essere una persona mal vestita
e abitante in ricoveri di fortuna.
Potrebbero ad esempio rientrare nella definizione
normativa di “senza fissa dimora”, così come integrata dalla recente novella
legislativa, anche coloro che, pur lavorando in modo stabile e percependo dunque un reddito
che consente loro di ben presentarsi e ben apparire, non dispongono però di un alloggio di
civile abitazione, vivendo come ospiti senza un indirizzo ancora stabile.
In realtà per
l’ufficiale di anagrafe, richiesto di una nuova iscrizione, è molto difficile discernere
tra queste diverse posizioni: quella della persona che, pur “senza fissa dimora” vive e
magari lavora ormai stabilmente sul territorio comunale; quella della persona che magari lavora sul
territorio comunale ma che invece risiede stabilmente sul territorio di un altro comune e
dunque non ha titolo ad iscriversi altrove, tanto meno nella falsa veste di “senza fissa
dimora”; ed infine quella della persona che vive e risiede stabilmente ad un indirizzo di
civile abitazione senza che lei stessa od il suo locatore intenda dichiarare tale stato di
cose (ad esempio perché il locatore teme altrimenti di rendere accertabile ai fini tributari
la messa a frutto di un immobile di sua proprietà).
Se è vero che l’accertamento
anagrafico presso l’abitazione di effettiva dimora non presuppone né l’esistenza di un
contratto di locazione né l’esistenza di nessun’altra forma giuridica di disponibilità
dell’alloggio, pure è vero che difficilmente lo si potrà in concreto ed utilmente
eseguire. Infatti, perché detto accertamento raggiunga l’obiettivo di fotografare
veracemente la realtà anagrafica occorrerebbe che l’accertatore anagrafico trovi in casa
il richiedente l’iscrizione anagrafica, od almeno che le persone informate del fatto (il
portiere, gli altri inquilini, i vicini di casa, il postino) attestino la sua effettiva
presenza all’indirizzo. È probabile, però, che il richiedente non sia in casa al momento
dell’accertamento, pur rientrandovi ogni sera, e che il portiere o il vicino di casa non
emettano dichiarazioni “contro” il locatore-proprietario che non vuole fare emergere il
rapporto di locazione; o peggio, potrà accadere che, a seguito dell’accertamento, il
rapporto di locazione, mai emerso in diritto, termini anche in fatto, costringendo il
richiedente a cercare un altro alloggio e a rinunciare, sino alla prossima occasione,
all’iscrizione anagrafica.
Un’alternativa a questa pur corretta ma defatigante cernita
delle posizioni anagrafiche (possibile di certo in un piccolo comune ma non in un contesto di
anomia urbana come si verifica nei comuni di più grandi dimensioni) può essere validamente
costituita da forme di protocollo che prevedano la domiciliazione anagrafica presso
associazioni ed enti dotati di una qualificata esperienza nei settori dell’assistenza e
dell’integrazione sociale, i quali svolgano, ad un tempo, la funzione di informatori
qualificati e di domiciliatari ai fini anagrafici delle persone che, pur insistendo
effettivamente sul territorio comunale, non dispongano però della stabilità alloggiativa
utile per ottenere altrimenti, come normali residenti, l’iscrizione anagrafica8.
Considerazioni riguardo a un residuo dubbio
di legittimità costituzionale
In conclusione, se bene interpretata ed
applicata, la novella dell’art.2 della legge anagrafica si sostanzierà, per un verso,
nella sola esclusione dall’anagrafe di quei “senza fissa dimora” che effettivamente non
abbiano alcun legame, né una effettiva frequentazione, con i luoghi e le persone della
comunità territoriale.
Per essi l’unica anagrafe possibile sarà dunque presso il comune
di nascita, se ne hanno uno sul territorio nazionale; se invece non l’hanno la soluzione
imposta dalla legge è probabilmente quella indicata dallo stesso art.2, co.5 della legge
anagrafica: si dovrà quindi considerare comune di residenza quello di nascita del padre o,
in mancanza, quello della madre. Nel caso, infine, che neanche questi criteri siano
adottabili, si dovrà utilizzare il registro previsto dalla norma ed istituito presso il
Ministero dell’interno9.
Deve per altro verso osservarsi come la
novella legislativa rafforzi la funzione accertativa dell’ufficiale di anagrafe, facendo
scomparire ogni possibile dubbio sulla mera elettività del domicilio (non più
configurabile), ma senza con ciò impedire a chiunque conduca la propria esistenza sul
territorio del comune, anche se in condizioni di estrema indigenza, di risultarne cittadino e
far valere i diritti di residenza che da ciò conseguono.
Emerge dunque -sia dalla lettura
sistematica delle norme attualmente vigenti, sia dalla applicazione a queste di gran parte
dell’esperienza accumulata dalla prassi e trasfusa in circolari e direttive -come
l’iscrizione anagrafica del “senza fissa dimora” all’anagrafe del comune di nascita
debba costituire un’extrema ratio, riguardando quei pochi soggetti che davvero non
posseggano una relazione privilegiata di vita con un territorio comunale10.
Ove ciò non avvenga saremmo di fronte
al diffondersi di prassi illegittime, oppure all’improbabile e poco credibile scoperta che
nel nostro paese vi sono ancora moltissimi italiani che conducono una vita completamente
nomade. Per pochi o troppi che saranno, i rimpatri anagrafici al comune di nascita porranno
però un sicuro problema di legittimità costituzionale quando ad essere ricondotti a tale
posizione anagrafica dovessero essere i membri di un’unica famiglia di “senza fissa
dimora privi di domicilio dimostrato”. In tale caso, infatti, stando alla lettera della
legge, il padre potrebbe ritrovarsi iscritto nel comune di
Bolzano e la madre in quello di Orgosolo; ed i figli con la madre, oppure in una terza città
se ormai maggiorenni e nati altrove11
Una famiglia i cui membri sono
effettivamente conviventi (pur nella comune condizione di girovaghi) si troverebbe dunque
frammentata in diverse anagrafi individuali contro la volontà dei suoi membri, e dunque con
diversi servizi sociali, diverse liste elettorali, etc. Sarebbe dunque davvero difficile non
scorgere in tale fattispecie, oltre ad altri possibili profili di incostituzionalità, quello
riguardante la violazione del diritto all’unità familiare (inteso qui anche come diritto
all’unicità della residenza anagrafica dei familiari tra loro effettivamente conviventi)
di cui agli art.29 e 117 Cost., in ragione dell’adesione italiana alla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che dà protezione agli interessi familiari nei
termini di cui all’art.8 di detta convenzione.
1 - Sulla definizione di “senza fissa
dimora” dal punto di vista sociologico e delle teorie di servizio sociale, cfr. Zuccari, Senza dimora: un
popolo di invisibili, Roma, 2007, 28 ss.
2 - Il primo considerato necessariamente
unico, mentre si ammette talvolta la possibilità che un soggetto abbia più di una residenza
(ma non più residenze anagrafiche). Così Bianca C.M., Diritto
civile, I, Milano,
1984
3 - Il Code Napoleon nel 1804, vera matrice
di molte delle successive esperienze di codificazione civile negli Stati europei e latino
americani, trattò unicamente del domicilio, assorbendo in questo la stessa nozione di
residenza. Le leggi emanate successivamente hanno poi dovuto integrare la disciplina
civilistica e amministrativa dei luoghi della persona. Sul punto: Graziadei, voce Domicilio in diritto
comparato, in Digesto, disc. priv. sez. civ, VII, 131
4 - Sul criterio distintivo proposto ne
testo, cfr.: Benussi, Per una interpretazione dell’inciso “affari e interessi” di cui all’art.43 Cod. Civile
(Contributo esegetico allo studio del domicilio) in Temi, 1967, 463; Stanzione , sub artt.43-45 in Codice civile
annotato, (a cura di Perlingieri), 1991, I, 422; E su Domicilio – residenza – dimora,
in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, Torino 1999, 573;
Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2007, 130. Contra: Tedeschi, voce Domicilio, residenza,
dimora, in Noviss.DI, App., III, Torino, 1982, 194 ss.
5 - L’interessato potrà liberamente eleggere domicilio
(ovviamente uno solo) in quel luogo ove, nonostante i suoi continui
spostamenti, egli preferisca recarsi, per ragioni di comodità, affettive o per altre ragioni
personali, incluse quelle meramente idiosincratiche “per ottenere le certificazioni
anagrafiche occorrenti”. In tal senso l’ISTAT, Anagrafe della
popolazione. Avvertenze – note illustrative e normativa aire, in Metodi e
norme, serie B, n.29,
Roma, 1992, 41
6 - Cfr., nuovamente, ISTAT, Anagrafe della
popolazione, cit., 45 s.
7 - Ritiene ad esempio Minardi, L’iscrizione
anagrafica dei cittadini extracomunitari dopo il “pacchetto sicurezza”, in Morozzo della Rocca
(a cura di), Immigrazione e cittadinanza, volume di aggiornamento, Torino, 2009, 90, che la novella conduca ad una
ovvia identificazione dell’indirizzo di residenza con quello di domicilio, mentre
resteranno iscritti in una via fittizia solo coloro che, non avendo nemmeno un domicilio, dovranno essere iscritti
nel comune di nascita.
8 - È questa la via già seguita con
successo da alcuni grandi comuni italiani, come ad esempio Firenze e Roma. Su queste
esperienze pilota: Zuccari, op.cit Matulli, L’impegno
dell’Amministrazione Comunale fiorentina a favore delle persone senza
dimora, in Zuccari (a cura di), Via Modesta valenti.
Una strada per vivere, Roma, 2004, 73 ss.
9 - Non affronto qui le questioni suscitate
da un altro registro da tenersi presso il Ministero dell’interno: quello ora disposto
dall’art.2, co.4 della legge anagrafica, esso pure introdotto introdotto dalla legge n.
94/2009. Le correlazioni tra i due registri e la loro probabile reductio ad
unum riguarderanno presto la fase di concreta attuazione della legge da parte del Ministero.
10 - Al riguardo, le esatte osservazioni
di Minardi, op.cit., 81 ss.
11 - Un caso non solo di scuola, come
dimostra la vicenda presa ad esame dalla rubrica Quesiti, in Sev.demografici, 2009, 6, 33,
riguardante una famiglia di “nomadi” composta da due adulti e tre minori, di cui – a
mio avviso sbagliando – l’anonimo risponditore al quesito ha ipotizzato la
cancellabilità dall’anagrafe del comune dove essi da tempo vivevano, spostandovisi
all’interno del territorio comunale con una roulotte in attesa di reperire una nuova
abitazione.
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